L’intervento della professoressa Annarita Taronna, dal titolo “Perché le parole contano”, ha posto in evidenza come il linguaggio sia spesso veicolo di molteplici forme di discriminazione sessista. Per secoli la lingua è stata governata da un principio androcentrico e l’uomo ha costituito il parametro intorno al quale è stato organizzato l’universo linguistico. Ancora oggi permangono asimmetrie semantiche, occultamenti e rappresentazioni stereotipate nell’uso della lingua italiana che sono il segno di un atteggiamento diffuso. Dietro la parola infatti ci sono le idee, un modo di guardare alla realtà di tipo ancora patriarcale, che relega la donna ad un dominio domestico e familiare e trasmette messaggi tesi a minarne la dignità e l’autostima. Utilizzare uno stereotipo perciò non è mai un’operazione innocente perché genera il “discorso d’odio” (hate speech), che ormai trova ampio spazio nella comunicazione e in particolare sulla stampa e sui social media. Ma esistono anche esempi virtuosi nell’uso del linguaggio, che innescano un’inversione di tendenza. È il caso di movimenti femministi di area anglosassone che hanno dato vita a campagne di femvertising (neologismo composto da feminism e advertising), cioè a campagne pubblicitarie volte a decostruire i clichè con cui sono state sinora rappresentate le donne, proponendo modelli femminili positivi e propositivi. E sono esempi importanti perché, come recita un noto slogan, “Gender equality is a human fight, not a female fight!”.
L’intervento della professoressa Claudia Attimonelli, incentrato su media e questione di genere, ha costituito innanzitutto un momento di riflessione utile per capire quanto la rete, in un momento di distaziamento fisico e sociale, sia diventata il luogo prevalente in cui ragazze e ragazzi, donne e uomini intessono rapporti e relazioni, lo spazio in cui viene rappresentato il significato del “genere”, che è in stretto collegamento con l’identità. Nelle reti sociali si assiste ormai a uno sgretolamento di quegli stereotipi di genere che vedono il maschile opporsi al femminile. Tik tok, Instagram e gli altri social media rendono possibile una vera e propria “inondazione” di soggetti LGBTQI: venendo meno il corpo in carne ed ossa, si entra in un contesto (il cyber spazio) che ci consente di ricreare la nostra identità e di aderire come mai prima al modo in cui vorremmo rappresentarci agli altri. Questo da un lato costituisce una sorta di rifugio, un mondo libero e gioioso in cui riusciamo a sentirci uomini e donne in costruzione identitaria; dall’altro, in mancanza di protezione adeguata, è una fonte di insidia, soprattutto per preadolescenti e adolescenti. Perciò docenti e genitori non devono essere contro la rete, ma devono anzi abitare queste realtà sociali e comprendere come funzionano per aiutare ragazze e ragazzi a gestirle in modo consapevole e difendersi dalle loro degenerazioni (ad es. body shaming). Spesso i giovani credono di poter abitare la realtà “fisica” con la stessa libertà sperimentata in quella più fluida e disincarnata della rete. Ma noi viviamo in una sorta di ossimoro: fuori dalla rete sono in atto processi di radicalizzazione degli stereotipi di genere, che costituiscono la risposta allarmata e disperata proprio a quella libera e gioiosa espressione di identità complesse e sfaccettate attive in rete, e la gestione consapevole di questa contraddizione è un’altra acquisizione necessaria per non incorrere in improvvisi e cocenti disinganni.
In conclusione dell’incontro, le relatrici hanno risposto ad alcune sollecitazioni proposte dai partecipanti in ordine alle questioni di genere, ai social media e alla pubblicità.